Terremoto Emilia Romagna: uno studio del 2009 aveva già messo in evidenza le sorgenti sismogenetiche della zona ferrarese
Il sistema sismogenetico ferrarese, responsabile del forte
evento sismico che ha vulnerato diversi comuni della bassa pianura
emiliana, vicino il confine fra le province di Ferrara e
Modena, è stato oggetto di vari studi e ricerche negli anni scorsi.
Fra queste spicca il lavoro di un gruppo di ricercatori dell’INGV e di
altri enti di ricerca italiani che negli anni
scorsi hanno eseguito dei lavori sul campo, col fine di poter
interpretare le complesse dinamiche crostali di quella porzione di
territorio che separa la pianura Padana dai primi contrafforti
montuosi dell’Appennino settentrionale. L’importante
studio,“Evoluzione tettonica plio-quaternaria dei fronti di
accavallamento nord-appenninici (transetto Bologna-Ferrara, Italia):
implicazioni
sismotettoniche”, pubblicato nel 2009, è stato condotto dai
ricercatori G. Toscani,P. Burrato, D. Di Bucci, S. Seno, G.
Valensise, quest’ultimo dirigente di ricerca
dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). Questa
importante ricerca, ben strutturata e abbastanza complessa, puntava su
diversi obiettivi. Il lavoro tratta di porzioni di
crosta terrestre piegate e inarcate al di sopra di diverse faglie
inverse, ovvero faglie che consentono il raccorciamento della crosta
stessa. Queste pieghe costituiscono vere e proprie dorsali
montuose che oggi si trovano sepolte al di sotto della Pianura
Padana, sotto un denso strato di sedimentazione che ha originato la
pianura stessa. In particolare il lavoro descrive l’arco delle
cosiddette “Pieghe Ferraresi“, responsabili dei terremoti di questi
giorni nella fascia emiliana, discutendo se e come la deformazione (che
poi fungerà da carica per i terremoti) si sviluppi
e si ripartisca tra le diverse faglie individuate e analizzando
quali di esse possano essere interpretate come sorgenti di forti
terremoti del passato.
L’obiettivo finale del lavoro era di elaborare delle“regole
geologiche universali”, dunque applicabili anche al resto della pianura
Padana e ad altri sistemi compressivi nel mondo,
che consentano di poter individuare e catalogare faglie con elevato
potenziale sismogenetico, da faglie innocue, incapaci di produrre sismi
ad alto potenziale. Nel lavoro di questi scienziati si
evidenzia come nella pianura Padana, a causa della rapida
sedimentazione clastica e dei limitati ratei di deformazione che
caratterizzano l’area, le evidenza di una attività tettonica attiva sono
molto scarse o alle volte di difficile lettura o interpretazione.
Difatti, se si scavasse sotto la pianura Padana, sotto la spessa coltre
di sedimenti, comparirebbero i primi contrafforti
dell’Appennino e si vedrebbe la dorsale ferrarese, ossia la
struttura che ha generato il grande terremoto di domenica scorsa.
Alcune di queste evidenze, seppur deboli, si riscontrano
nelle anomalie del reticolo idrografico, sotto forma sia di deviazioni
fluviali che di repentine variazioni dell’attività erosiva
del corso d’acqua. Inoltre, i cataloghi della sismicità storica e
strumentale mostrano che la pianura Padana meridionale è interessata da
una sismicità da bassa a moderata, con eventi tellurici
fino a una magnitudo di 5.8 Richter. Gran parte di questi eventi
sono caratterizzati da meccanismi focali di tipo compressivi. I dati
GPS, infine, hanno evidenziato un debole raccorciamento
in direzione Nord-Sud (velocità inferiore a 1 mm l’anno). In questo
contesto, il lavoro puntava a verificare: 1) il grado di attività dei
diversi accavallamenti sepolti dell’Appennino
Settentrionale, in particolare nell’arco delle pieghe ferraresi; 2)
se e come la deformazione si ripartisca tra essi e quali degli
accavallamenti individuati possano essere interpretati come
sorgenti di terremoti potenzialmente dannosi.
Integrando dati geologici, strutturali e morfotettonici e,
sulla base dell’interpretazione delle linee sismiche a riflessione, lo
studio ha permesso la realizzazione di una sezione a
scala regionale, orientata circa S-SO-N-NE. In seguito si è deciso
di proiettare la sismicità storica e strumentale dell’area sulla sezione
geologica, per confrontare la sua distribuzione
rispetto all’assetto strutturale e alle deformazioni rilevate, in
particolare nei sedimenti quaternari. Infine si sono realizzati dei
modelli analogici volti a riprodurre l’evoluzione della
deformazione lungo il transetto investigato, in particolare quella
plio-quaternaria, con l’obiettivo di studiare la cinematica e
l’evoluzione dei fronti di accavallamento e le interazioni tra
attività tettonica e sedimentazione nelle fasi finali della
strutturazione di tali fronti. I risultati hanno mostrato che i
sovrascorrimenti principali sono stati attivi durante il Quaternario e
in parte lo sono anche attualmente, presentano una partizione della
deformazione nelle zone di sovrapposizione. Essi hanno ubicazione e
geometrie compatibili con i principali terremoti che
storicamente hanno colpito l’area, ciò indica che rappresenterebbero
le faglie sorgenti di quegli eventi tellurici. Già nel 2009 questa
pubblicazione era riuscita a definire le strutture
sismogenetiche che potevano essere responsabili di eventuali e
complessi cicli sismici che periodicamente, dopo svariati periodi di
quiete, tornano a riattivarsi, generando nuove sequenze, come
quella in atto sulla fascia emiliana, fra modenese e ferrarese. Di
certo, dopo l’evento principale di domenica scorsa, di 5.9 Richter, e la
moltitudine di repliche che lo accompagneranno per
diverse settimane, se non mesi, sarà ancora più facile riuscire ad
individuare con maggiore certezza l’assetto delle faglie responsabili
del grande terremoto emiliano.
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